Una delle paure ancestrali dell’essere umano è la paura della solitudine. In questo articolo voglio proporre delle riflessioni su questo tema perché conoscere ciò che ci fa paura è il primo passo per imparare a gestire qualsiasi paura.
La realtà contemporanea è notoriamente una realtà iperconnessa. Viviamo immersi nelle relazioni con gli altri, oggi molto di più rispetto al passato. I bambini di oggi hanno una vita sociale molto più ricca di un tempo, le loro mamme sono in continuo contatto per organizzare attentamente la loro vita extrascolastica in modo da renderla sempre più ricca e stimolante. E questo trend prosegue anche nelle successive fasi del ciclo di vita. Dall’adolescenza in poi la fanno da padrone i social che sono diventati il principale mezzo di confronto sociale e del rapporto con l’altro.
Inoltre possiamo tenere in considerazione un dato ulteriore, ossia che l’epoca contemporanea è caratterizzata da una forte urbanizzazione. Nell’ultimo secolo infatti si sono costituite sempre più città, sempre più grandi, e nelle città ci sono molte più possibilità di rapporto e contatto con gli altri.
Eppure tutto questo non sembra bastare, anzi paradossalmente questa epoca sembra essere caratterizzata dal sentimento di solitudine.
La solitudine è un sentimento umano molto importante da un punto di vista evolutivo. Nel passato infatti la sopravvivenza dell’uomo era subordinata alla possibilità di organizzarsi in gruppi per potersi difendere in modo più efficace e potersi procacciare il cibo. Essere da soli significava essere più vulnerabili ai pericoli.
Noi siamo animali sociali e la nostra sopravvivenza psicologica ma, in alcuni momenti della nostra vita, anche fisica, è determinata dalla relazione con l’altro.
Pensiamo ad esempio al neonato: senza la propria madre o un caregiver che si possa occupare di lui, non sopravvivrebbe. Non sarebbe innanzitutto capace di procacciarsi autonomamente del cibo, e, da un punto di vista psicologico, non avendo ancora raggiunto la maturazione cognitiva necessaria a organizzare e dare un senso a tutto ciò che lo circonda, sarebbe soverchiato dalle stimolazioni del mondo esterno. Alla luce di questa considerazione allora i comportamenti di attaccamento manifestati dal bambino hanno un’importanza fondamentale per assicurarsi sicurezza e protezione da parte del caregiver.
Esemplificativo a questo riguardo è il celebre paradigma sperimentale implementato da Mary Ainsworth (1969) che è stato utilizzato per analizzare i segnali di stress manifestati dal bambino quando è posto in una situazione nuova senza caregiver di riferimento. È assolutamente normale che un bambino per fronteggiare un contesto sconosciuto, e quindi potenzialmente pericoloso, ricerchi la propria figura di riferimento. Stare da soli suscita reazioni di ansia e questa risposta è intrinseca alla nostra natura.
Questo sentimento umano si configura come un’esperienza soggettiva che tiene conto solo relativamente del dato oggettivo. Ci sono molte persone che amano stare da sole o comunque, pur apprezzando la compagnia, non la ricercano spasmodicamente. Altre persone invece sono molto spaventate all’idea di rimanere da sole e ricercano continuamente contatti sociali, manifestando sintomi di stress se non sono coinvolti in contesti di socialità. Oltre a quanto già detto si consideri che ci si può sentire soli anche in mezzo alla gente, così come si può non percepire la solitudine anche se si è da soli.
Ci sono dunque differenze individuali, ed esse hanno una componente sia genetica che esperienziale, ossia sono determinate dalle nostre esperienze, positive o negative, soprattutto relative alla nostra infanzia, momento della vita in cui la costruzione della nostra personalità è ancora in divenire.
Per la propria salute psicologica è comunque importante anche sapere stare da soli. Rimanere da soli infatti significa fermarsi e rivolgere lo sguardo verso di sé. Inoltre significa imparare a osservarsi e conoscersi. Vuol dire ritagliarsi uno spazio di pensiero e di riflessione sulle proprie esperienze e sulla propria persona in generale.
La solitudine si configura come un problema quando diventa pervasiva e fonte significativa di disagio e malessere. In alcuni casi la paura della solitudine può generare una vera e propria sintomatologia ansiosa. Il corpo vive in un continuo stato di allerta che anticipa il possibile pericolo di rimanere da soli. È su questo scenario che si possono istaurare problematiche di dipendenza affettiva, o si può essere maggiormente a rischio di abusi emotivi o maltrattamenti.
Inoltre un sentimento di solitudine pervasivo può innescare sentimenti depressivi e avere effetti nocivi anche sulla propria autostima; essi possono aggravare così a loro volta la condizione di isolamento e conseguentemente la solitudine stessa.
Quando questo stato d’animo di solitudine diventa invalidante e/o genera comportamenti disfunzionali, può essere d’aiuto rivolgersi ad un professionista. Parlarne con un professionista, infatti, permette di comprendere meglio l’origine di questo vissuto e fornisce strumenti utili per riuscire a fronteggiarlo.